Dopo l’agosto di Matteo Salvini avremo quello di Giorgia Meloni? Nella politica che è sempre meno uno spettacolo da gustare ma ha sempre più bisogno di identificarsi in un personaggio che in un progetto, è già così. Nei sondaggi, nelle cronache dei giornali e negli oroscopi proiettati sul futuro la presidente di Fratelli d’Italia ha preso il posto del segretario della Lega, in calo di consensi e in difficoltà giudiziarie. A un anno dalla nascita del Conte II, e mentre le rilevazioni danno ancora il centrodestra saldamente in testa al gradimento degli italiani (47,4% contro il 41,5% secondo Alessandra Ghisleri), l’ascesa dell’unica donna (dopo la veterana Emma Bonino) a capo di un partito ha qualcosa di spettacolare. E così, mentre i dati disponibili mostrano tutto il limite del progetto giallorosa di ribaltare gli equilibri politici nazionali nonostante il credito riscosso in Europa, conviene esaminare più da vicino il fenomeno Meloni, nei suoi successi ma anche nei limiti, che non mancano. Il bilancio è largamente positivo, la crescita va di pari passo con il declino della Lega. In poco più di un anno, dalle Europee del 2019, FdI passa dal 6,5% (reale) al 18 (virtuale secondo Pagnoncelli), mentre la Lega scende dal 34,3 al 23,1. La terza gamba della destra, Forza Italia, perde due punti, dall’8,8 al 6,9%. Il travaso appare evidente, ma Giorgia non infierisce: afferma che i nuovi consensi vengono anche dagli indecisi e dagli astenuti, eppure il riequilibrio nel campo della destra è palese, con un trend che si proietta oltre i confini della coalizione: sempre secondo Pagnoncelli, Meloni tallona da vicino i Cinque Stelle e lo stesso Pd di Zingaretti. Lei sostiene di aver recuperato il potenziale di Alleanza nazionale, disperso dopo l’ingloriosa fine del fondatore Gianfranco Fini, e già questo è un dato significativo: mentre a sinistra Zingaretti pur conquistando il governo non ha convinto gli elettori persi dal Pd, a destra Meloni è riuscita nell’impresa di riportare a casa tutti i suoi, aumentando addirittura il bottino. E’ vero che stiamo parlando di consensi virtuali, ma fra poco più di un mese, quando si voterà per i Consigli e i Presidenti di sei regioni a statuto ordinario e in Val d’Aosta, il responso delle urne chiarirà meglio i rapporti di forza non solo nel centrodestra. Le regioni chiave sono la Toscana, la Puglia e le Marche, tutte e tre amministrate oggi dal centrosinistra. Nella prima, la rincorsa della destra è guidata da una candidata leghista; nelle altre due da esponenti di Fratelli d’Italia: quando si conteranno le schede si capirà meglio chi, nella destra, sarà in grado di lanciare la sfida alla coalizione di governo. E qui siamo al punto debole di Giorgia Meloni: un eventuale primato nella coalizione di destra sarà sufficiente per accreditarla nella scalata a palazzo Chigi? Se ne può dubitare. Il limite, l’handicap di Fratelli d’Italia non è numerico, ma politico. Lo indica forse inconsapevolmente lei stessa quando rievoca l’esperienza di Fini e di Alleanza nazionale, con la quale ha in comune le dimensioni del consenso ma non il profilo che era o cercava di essere, nel caso di An, quello di una destra repubblicana in senso classico ed europeo, mentre in FdI è venato di nazionalismo e non privo di espliciti richiami all’esperienza postfascista del Msi. Per portare al governo il suo partito, Fini ebbe bisogno della malleveria di Berlusconi, accreditato dai conservatori e dai popolari europei; ma oggi, con un Berlusconi ridotto ai minimi termini ed una coalizione fortemente sbilanciata in senso antieuropeo e sovranista, l’impresa appare molto più ardua, forse impossibile.
di Guido Bossa