Confesso che l’età matura mi porta a provare un particolare piacere, ogni volta che ricordo il tempo trascorso da adolescente in Irpinia. Ed è così che spesso mi accingo a raccontare i bei momenti trascorsi tra affetti e speranze. Splendidi borghi, piazze, monumenti, volti, panorami suggestivi riappaiono, per così dire, davanti ai miei occhi in un universo di ricordi, a volte chiari e rassicuranti, a volte confusi e tormentati, che avvolgono la mia mente e, così, comincio a ripercorrere a ritroso la mia vita. È in qualche maniera un uscire allo scoperto, un ritrovarsi con sé stessi, da soli. Un diario esistenziale, che porta ad interrogarci sul percorso compiuto e sul tratto che ancora ci resta da percorrere, riavvolgendo il nastro dall’inizio del viaggio memoriale. Certo non si tratta di evocare un nostalgico ‘come eravamo’, bensì un più realistico e utile ‘come potremmo essere partendo da ciò che eravamo’.
L’Irpinia, si sa, è una terra costellata da una fitta trama di borghi dal sapore antico arroccati sui declivi collinari e montuosi dell’Appennino meridionale. Pezzi di territorio caratterizzati da un enorme potenziale paesaggistico e ambientale che presentano una tipologia ricorrente: scarsa densità abitativa, modeste dimensioni, strade strette e tortuose, piazze e fontane, notevole presenza di fortificazioni (castelli, torri, cinte murarie), di architetture religiose (abbazie, monasteri, chiese, campanili) e di un consistente patrimonio civile costruito con sapienza e attento alla tradizione (palazzi, case).
Le strutture insediative sparse qua e là sui colli si adeguano all’andamento altimetrico dei luoghi disegnando un profilo che si integra perfettamente nell’ambiente naturale circostante. Un paesaggio che ha la proprietà di rimanere nella memoria punto per punto, nella successione di strade, e case lungo le strade, e poi porte e portoni, finestre e balconi, pur non mostrando in ogni elemento nessuna bellezza o rarità esclusiva. Passo dopo passo, edificio dopo edificio, i piccoli borghi ci appaiono come fossero il tentativo di un intervento causale, spontaneo, quasi naturale, frutto dell’attività inconsapevole dei suoi stessi abitanti e non il risultato di una precisa intenzione progettuale. Spesso c’è solo una pallida parvenza di ordine nella disposizione di ogni singolo manufatto, ma, nonostante ciò, l’effetto generale che se ne ricava è quasi sempre caratterizzato da un alto grado di bellezza. Il segreto di questo carattere sta nel modo in cui l’occhio percepisce il quadro d’insieme generale, con le case che si susseguono come in una poesia d’autore dove nessuna parola può essere cambiata o spostata. Ogni blocco di pietra, ogni minuscolo elemento ligneo, ogni facciata è una pagina di un libro che deve essere letto, interpretato e salvaguardato.
Leggere e comprendere i significati dei paesaggi, anche attraverso l’immateriale, l’intangibile, cogliere l’importanza della luce e del colore, del vento e delle nuvole che riempiono il cielo, del silenzio, vuol dire cogliere quei segni che hanno reso possibile la lunga convivenza tra uomo e natura. Il patrimonio paesaggistico ha sempre basato la sua carica emotiva sulla ricchezza ambientale e sulla qualità del costruito storico, ma anche sullo stretto rapporto che esiste tra gli abitanti e il proprio patrimonio culturale. Se questa relazione cessa di esistere, o se non è più visibile, l’intero territorio diventa un oggetto vuoto, o meglio si trasforma con nuovi significati che non interessano più nessuno e che osserviamo giusto il tempo necessario per poi proseguire per altre destinazioni.
Chi di noi non ha contemplato, la sera dopo una giornata faticosa, la perfetta disposizione di un abitato lontano? Chi di noi non ha cercato pace e serenità alla sola vista di un suggestivo paesaggio con antichi villaggi abbarbicati su speroni rocciosi? Chi di noi non ha avuto il tempo per cogliere il fascino senza tempo dei borghi: suggestivi castelli medievali dalle sagome slanciate, pittoreschi campanili e antiche chiese, campi di erbe fiorite, macchie di boschi che coronano i monti e valli con sterminati campi di grano, vigneti e frutteti, fiumi e torrenti che continuamente solcano la terra con i loro incomprensibili percorsi d’acqua?
Ecco, sono proprio queste le immagini dei piccoli paesi-presepe, culle di storia plurisecolare che descrivono le fasi del lungo e stratificato processo evolutivo di cui il paesaggio è l’interprete indiscusso: frammenti visivi, tessere grafiche, pezzetti di mosaico da collocare nella giusta posizione spazio-temporale e storico-culturale, nel complesso disegno delle innumerevoli geometrie possibili.
Oggi, le centinaia e centinaia di fotografie utilizzate come cartoline durante tutto il Novecento sono molto utili in questo esercizio di lettura e ricomposizione della storia del paesaggio storico. Ogni cartolina riporta alla mente il tempo di quando eravamo giovani. Sono spesso foto in bianco e nero, alcune ingiallite o piegate, altre in perfetto stato, che mostrano paesaggi che sembrano ammiccare a quella visione semplificata ed edulcorata della realtà̀: cime innevate e colline punteggiate dai borghi, valli segnate dagli innumerevoli corsi d’acqua, e poi ancora aree boschive e altopiani con pastori e armenti. È sorprendente che semplici cartoline, vendute solo qualche decennio fa in minuscole edicole e tabaccherie locali, riescano ancora ad offrire sensazioni autentiche e pure, capaci di farci identificare con i luoghi dove abbiamo vissuto prima delle trasformazioni e lacerazioni subite dal paesaggio, sia quelle causate dalla mano dell’uomo e sia quelle conseguenti agli eventi catastrofici che hanno messo in ginocchio l’Irpinia a più riprese nel secolo scorso (terremoti del 1930, 1962, 1980). Una documentazione che offre un potenziale incredibile per aver immortalato il volto dei nostri villaggi nel mentre esalavano il loro ultimo respiro, un fermo immagine che ci permette di interpretare nella sua nuda semplicità il nucleo fondante dei nostri insediamenti con tutti i dettagli morfologici, tipologici, materici e cromatici di un mondo in via di dissoluzione. Oggi disponiamo di strumenti tecnologicamente avanzati e molto efficaci per ricostruire, attraverso modelli digitali con nuvole di punti e fotogrammi orientati, immagini tridimensionali cariche di informazioni, ma che sono il risultato di semplici automatismi tecnologici e, quindi, non offrono la stessa efficienza analitica e rappresentativa. A tale mancanza l’apporto della cartografia storica rappresenta uno strumento indispensabile per un’adeguata definizione dei valori e per una corretta interpretazione delle complesse stratificazioni dei numerosi e spettacolari skyline dei borghi irpini. In questa direzione molto utili sono soprattutto le prospettive a volo d’uccello pubblicate a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, a corredo delle raccolte dell’abate Giovan Battista Pacichelli e dei nobili Francesco Cassiano de Silva e Cesare Orlandi, che riportano la consistenza della forma urbana di molti dei centri storici irpini.
Non è un caso se in Irpinia come anche in altri contesti paesaggistici di pregio, ogni volta che si trova una strada o un segmento di strada databile fino agli anni Cinquanta o Sessanta, si è quasi sempre certi di vedere qualcosa di bello e di piacevole. Cosa è successo subito dopo? Cosa è successo nei decenni successivi? Sembra che in passato i costruttori fossero guidati dalla saggezza della tradizione e, anche se in realtà la maggior parte degli edifici che costruivano erano più semplici e disadorni, la bellezza era comunque un elemento evidente nella maggior parte delle loro opere, così che le loro strade erano ricche di scorci pittoreschi e di angoli degni di un quadro d’autore. Nella progettazione generale, anche se spontanea, la composizione di un edificio, la volumetria e l’articolazione delle facciate, era strettamente legata alla percezione del quadro visivo e, quindi, alle emozioni che evocava, lo sfondo era la quinta della scena ambientale. Possiamo ancora oggi trarre giovamento dai bei paesaggi del passato e riportare la necessità sul bisogno del ritorno alla bellezza, non cercando certo di copiare gli antichi profili pluristratificati, ma raccogliendo suggerimenti che potrebbero a loro volta essere validi insegnamenti per abbellire i nostri borghi ove la scena della nostra vita si svolge quotidianamente. È giunto il momento di riconfigurare il nostro paesaggio, di ridisegnarlo, di ripensarlo, di dare un futuro al nostro passato, di creare le condizioni per un nuovo modo di abitare antico e moderno insieme.
Per un architetto, imparare dal paesaggio circostante è un modo straordinario di condividere una storia, un passato comune, ricominciando a tessere daccapo la trama dei vecchi insediamenti, più tollerante e, perché no, più colta e attenta alle forme spaziali, insomma con un codice di pratica che sappia interpretare le differenze, cogliere il segno dei tempi, seguire il bioritmo antropologico.
La storia millenaria del territorio irpino è scritta lì, nel proprio paesaggio. Tocca a noi, unici eredi di questo immenso patrimonio plasmato dalle viscere di una terra ruvida, posta nel mezzo, tra sole e rocce, tra vento e nuvole, tra i mille colori e silenzi che si stagliano sul fondo intenso del verde e si perdono nell’azzurro del cielo che copre i monti dell’Appennino meridionale. E di nuovo, tutt’intorno vedo, uno ad uno, i piccoli paesini di pietra che si arrampicano a fatica sui dolci pendii, le mille piccole luci che brillano vita, il verde delle viti del Taurasi e dell’Aglianico che si nascondono tra le case, la macchia ombrosa dei boschi tra i sinuosi anfratti del Fredane e del Calore, immensi giacimenti di memorie tra tante storie grandi e meno grandi.
Quante volte, seduto tra i campi, alla luce del giorno, ho frugato con amorevole contemplazione gli orizzonti lontani: provvide selve che si ammantano di ondanti faggeti e cedui selvaggi; aspre montagne e morbidi colli adornati di uliveti e vigneti che si distendono in prosperi fertili piani. Chi non ha visto dalle mie parti, specie verso sera, il color d’oro dei vespri, la luce dell’aria sulle pendici del monte Tuoro (1325m), sulla piramide del Terminio (1806m) o sulle cime frastagliate dei Mai (1607m); chi non ha visto ai tiepidi raggi del sole mattutino la foschia che si dirada nella Media valle del Calore, non ha visto, io credo, la luce più bella del mondo, una luce nitida, ferma, ruvida, d’una virile, umana dolcezza. Ma ora vedo che dalla bella casetta dove sono nato, il fumo non esce più dal camino, anche se sento l’odore della legna che arde, sembra che pianga, silenziosa, con le imposte chiuse, e che, in fondo alla strada dei bambini giocano a nascondino, li seguo con lo sguardo, sento il silenzioso rumore dei passi, l’eco di una risata come ai bei tempi andati. Non c’è luna, ma un mare di stelle tante quante le lucciole nelle notti d’agosto. È strano come tutto è cambiato eppure eguale, la tegola sconnessa, la macchia di verderame, la minuscola crepa nel muro, il pergolato della vicina casa di campagna dove spesso con gli amici gustavo un buon bicchier di vino accompagnandolo con pane cotto a legna, formaggio fresco e una buona soppressata. C’è ancora la robusta pianta di fico con le sue tortuose ramificazioni, è lì in buona salute e, vicino, il piccolo cancello arrugginito chiuso col fil di ferro, il muro di pietra annerito, il piccolo sentiero tra due rialti erbosi. Di tanto in tanto mi sembra di essere ancora lì, i luoghi non sono più esattamente quelli di una volta, ma ricordo bene il posto dove sono nato, la casa materna dove ho consumato in fretta parte della mia adolescenza, un tatuaggio nell’anima.
Giovanni Coppola