I dati a doppia cifra sui morti per Covid che, quotidianamente ci vengono forniti dai media, ci costringono a trovare qualche momento di riflessione su due termini incommensurabilmente asimmetrici, vita e morte. Necessari momenti anche di fronte alla morte di tante vite umane, tra cui donne e bambini, che annegano in mare, durante il loro estremo tentativo di raggiungere lidi vivibili, lontani dalle guerre senza fine e dalle più feroci atrocità. L’esperienza del Covid che ancora ci impaurisce ci ha, comunque, dimostrato che la scienza può salvarci quasi da tutto, ma ci ha confermati nel nostro essere segnati da una fragilità irriducibile, a fronte di alcune patologie non superabili, fino a spingere molti esseri umani a legiferare per legittimare un diritto alla morte. Eppure non possiamo non rimanere estasiati dall’irrompere del vivente nel mondo, specie di quello umano. C’è un mistero che si rinnova in ogni nascita che suscita stupore e incanto. A tal proposito ricordo che durante la mia prima adolescenza, un saggio vegliardo del mio paese natio, seduto davanti alla sua casupola, invecchiata dal tempo e dall’incuria, riusciva ad attirare la curiosità, persino l’interesse, di noi adolescenti per ascoltare le storie affascinanti del suo lungo e faticoso percorso esistenziale. Spesso queste storie si concludevano con una ammirevole conclusione: “sappiate, cari ragazzi, che la fine del mondo non avverrà mai, fino a quando nasceranno bambini e fioriranno i nostri alberi da frutto”. A distanza di parecchi decenni, mi rendo conto della saggezza di quel vegliardo. Eppure, non tutti i nuovi nati sono destinati a ricevere una rassicurazione o una confortevole accoglienza. Ci sono migliaia di vite umane che non riusciranno a proteggere e che lasciano ogni giorno alla signora vestita di nero la consegna della loro vita. Sarà sempre tardi quando, poi, ci accorgiamo che questo evento drammatico è avvenuto anche perché totale e colpevole è stata l’indifferenza dei potenti e il silenzio dei pensanti. Relitti umani dei quali dimentichiamo volti e nomi giacciono in fondo alle nostre coscienze addormentate dalla noia o attratte dalle ultime novità consumistiche dei nostri supermercati. Un interessante articolo di don Armando Nugnes, rettore del Pontificio Collegio Urbano di “Propaganda Fide” – presbitero napoletano della diocesi di Aversa – ci ricorda che morte e vita, sono due imponderabili misteri di cui dobbiamo cogliere l’intreccio e la reciprocità. La riflessione di cui parlavo all’inizio mi conduce ad un approdo interiore nel clima di sofferta attesa dell’attuale Avvento, la morte si fa passaggio, pasqua, verso la pienezza della vita, se essa giunge a compimento di una esistenza vissuta con l’altro e per l’altro, in quel “dare la vita” che costituisce la cifra interpretativa della morte come della vita di Gesù Cristo. È un approdo il mio, lo ricordo ancora, che un caro amico non credente, docente di filosofia al liceo classico cittadino, fino agli ultimi suoi giorni, mi ammirava per averlo raggiunto, con la sua significativa onestà intellettuale. Ai nostri giovani giunga il modesto, ma fervente monito di questo travaglio esistenziale, per indurli a pensare di più, con coraggio e sforzi per approdi difficili, ma sempre carichi di speranza.
di Gerardo Salvatore