Di Monia Gaita
L’Irpinia, gli ombrelli bassi e aperti dei noccioli,
l’anima che barcolla
e dondola tremante sulle spalle.
La lingua biforcuta delle nuvole
tra la promessa e la ripulsa,
mi suggerisce: vale la pena di partire.
Le agenzie del lavoro hanno l’alito cattivo
già dall’alba.
Lo so, dovrò lasciare questi campi,
trovarmi faccia a faccia col grigio dei palazzi
che spunta in pustole di sebo sulla pelle.
Dovrò difendermi dalle perfìdie della solitudine,
dagli spacchi nostalgici dei giorni di festa,
dal sopravvento di sentirmi alieno
dentro la mia casa.
Non sarò felice.
Nessun occhio umano mi vedrà piangere.
Giuro.
Metterò a dimora un piccolo riscatto d’esistenza
e porterò il broncio a ciò che non fui in grado
di salvare.
Nessuno si accorgerà del mèntore
che mi sorveglia da un incavo.
Dall’argine attempato delle aziende,
dal lobo più recente e anonimo di certe costruzioni
penderà la mia terra.
Avvolgerà le auto, i vetri, i marciapiedi
quell’assoluta radice che avanza
dalle ere.