Diego, sette anni, a Lioni era da molte ore prigioniero sotto le macerie: la madre, con una flebile voce bagnata di lacrime: «Respira», gli sussurrava mentre in tanti scavavano a mani nude, per rimuovere quel cemento assassino. Furono momenti d’angoscia, ma vissuti nella speranza. Poi, dopo lunghe ore, un volontario riuscì a tirar fuori Diego ancora vivo da quel tunnel della morte. Aveva gli occhi aperti, un sorriso appena accennato, poi spirò e con lui morì anche la speranza. Io ero lì con la terra ancora calda sotto i piedi: quel dolore è rimasto scolpito nella mia memoria di inviato, non mi ha lasciato mai più.
Erano giusto 45 anni fa: il 23 novembre del 1980, le viscere della terra colsero tutti di sorpresa. Il Paese era impreparato, nessuna prevenzione per un Sud notoriamente «ballerino» e una dorsale appenninica ad alto rischio. Così il sisma assunse l’identità di una terra squarciata, «il terremoto dell’Irpinia», sebbene avesse portato distruzione e morte nell’intera Campania, Basilicata e regioni limitrofe. Tanto che Giuseppe Zamberletti disse che la catastrofe, per dimensioni, poteva essere paragonata a quella di un territorio grande quanto e più del Belgio.
In quei giorni furibondi – che avrebbero generato la nascita della Protezione civile in Italia – furono scavate a decine le fosse per i cadaveri avvolti in bianche lenzuola perché non c’erano bare a sufficienza. Molti dei sopravvissuti divennero sfollati in partenza per l’estero o negli alberghi delle zone costiere. Nacquero le tendopoli con le cucine da campo e nulla fu come prima. Si scavò un solco profondo sul viso della gente e nella storia: il 23 novembre fu uno spartiacque tra il prima e il dopo. Anche a Napoli le strade cambiarono volto: la città, i palazzi storici, i quartieri vacillanti furono ingabbiati nei «tubi Innocenti». In Irpinia, la civiltà contadina che fino ad allora era riuscita a sopravvivere, fu spazzata via. Tutto cambiò faccia: le vecchie case con i servizi igienici all’esterno, si sarebbero trasformate in villette costruite a valle, nei cosiddetti «piani regolatori», paesi senza più nome, ben lontani dai cocuzzuli delle montagne dove vivevano da secoli comunità povere, ma di grande dignità.
Oggi è lo spopolamento a far tremare questi luoghi che spesso hanno case ricostruite, ma vuote. Il terremoto dell’Irpinia è stata una tragedia contemporanea con oltre tremila vittime e famiglie spezzate. Ma si trasformò anche in un’occasione di facili arricchimenti, di scambi politici inefficaci e colpevoli che generarono delusione dopo la propaganda di un imminente mai arrivato «sviluppo delle zone interne».
Anche Napoli dimostrò le sue fragilità. Alcune case si sfarinarono cancellando secoli di storia e gettando molte famiglie per strada. La grave condizione dei senzatetto determinò un disagio enorme che, dopo le proteste, trovò una risposta politica nella legge De Vito: così la metropoli beneficiò di ventimila alloggi da realizzare tra l’area urbana e le periferie. «Ci hanno rubato il terremoto» gridarono allora i sindaci dei Comuni delle aree interne con riferimento ad un patto di potere tra i maggiorenti democristiani della Campania.
Un accordo con prezzi amari: dal sequestro di Ciro Cirillo, alla morte del commissario Ammaturo, all’intesa tra Brigate rosse e camorristi cutoliani. Se da un lato quella terribile catastrofe si presentò come una grande occasione di rinascita grazie alle risorse stanziate per la ricostruzione, non altrettanto è avvenuto per l’auspicato sviluppo. Nelle zone del cratere, le aree industriali, dopo 45 anni da quella «malanotte», fatta qualche rara eccezione, sopravvivono a stento. Esaurite le risorse del post terremoto, le difficoltà sono aumentate sia in fatto di occupazione che relativamente al presunto sviluppo.
Il meridionalista Manlio Rossi Doria, di fronte al disastro, ammonì la classe dirigente con una sorta di profezia. Disse che il dopo sarebbe stato più difficile del prima se non fosse stato gestito con responsabilità e intelligenza. Un monito che vale anche per la gestione dei fondi del Pnrr, i cui effetti si vedranno dopo il loro esaurimento e
solo il tempo potrà validare la qualità dei progetti. Mezzo secolo dopo quella «malanotte», resta la necessità di creare una classe dirigente responsabile e lungimirante. Il terremoto dell’Ottanta sia un monito per il presente.



