In un Parlamento frammentato come quello che uscirà dalle urne del 4 marzo, ma in assenza degli invalicabili steccati ideologici che nella cosiddetta prima Repubblica cristallizzavano le coalizioni, non deve meravigliare se nella preparazione delle liste elettorali la logica della fedeltà abbia prevalso su quella della rappresentanza. La competizione vede protagonisti tre blocchi – Cinque stelle, centrodestra e centrosinistra – che, stando ai sondaggi, più o meno si equivalgono, e l’alleanza di Liberi e Uguali, frutto della convergenza di preesistenti partitini di estrema sinistra con gli scissionisti del Pd; ma è facile prevedere che i gruppi parlamentari che verranno formati dopo il voto saranno molto più numerosi, frutto di una scomposizione che già si intravede. Succedeva nelle legislature in cui era prevalente il sistema maggioritario; tanto più accadrà domani, quando i due terzi dei deputati e senatori saranno stati eletti con il proporzionale. Il centrodestra si dividerà in tre o quattro formazioni indipendenti, ognuna con un suo leader, e lo stesso farà l’alleanza di centrosinistra che per il momento si riconosce in Matteo Renzi ma le cui componenti, socialisti, radicali, ulivisti, sono pronte a rivendicare la propria identità. Anche nella composizione delle liste di LeU è facile riconoscere il profilo dei partiti di provenienza dei singoli candidati, ai quali Pietro Grasso ha voluto aggiungere i suoi fedelissimi. Restano i Cinque stelle, che si presentano saldamente coesi, ma che già nella scorsa legislatura hanno visto sfaldarsi la propria rappresentanza, perdendo per strada una quarantina fra deputati e senatori, frutto di un reclutamento occasionale, determinato da un limitato numero di consensi ottenuti via web. Questa volta il controllo del capo politico sugli eletti dovrebbe essere più stringente, ma il fatto che a distanza di giorni non sia ancora stato reso noto il conteggio delle preferenze espresse nelle “parlamentarie” fa dubitare sull’intera procedura. Lo scenario che si aprirà dopo il 4 marzo non presenta certezze per nessuno, perché è difficile che dalle urne esca un vincitore assoluto. Logico quindi che prevalga la regola della fedeltà al capo, che disporrà di truppe limitate di numero ma fedeli e pronte a seguirlo nelle manovre più spregiudicate. Quasi per un tacito accordo fra i contendenti, si è evitato di favorire nei collegi uninominali il duello fra personalità di rilievo, che avrebbe per forza di cose consacrato un solo vincitore. Non si tratta di fair play, ma piuttosto della reciproca convenienza a non privarsi delle truppe più scelte, che verranno utili al momento di occupare i vertici istituzionali, formare alleanze, maggioranze e squadra di governo, quando lo scongelamento dei blocchi potrà riservare sorprese. E’ significativo l’infortunio capitato a Luigi Di Maio, che secondo un’autorevole agenzia di stampa internazionale avrebbe manifestato ad un gruppo di investitori della City di Londra la disponibilità ad alleanze post voto. Il leader dei grillini ha subito smentito, ripetendo la formula già nota: “Dopo il voto, se non avessimo la maggioranza assoluta, faremo un appello per convergere sui temi”. Ma è una precisazione che non cambia la sostanza delle cose: convergenza vuol dire alleanza, coalizione, accordo, scambio. Voti espressi in parlamento in cambio di qualcosa: posti di governo o contenuti programmatici. Al di là della smentita di rito, resta il fatto che nelle ultime settimane il capo politico dei Cinque stelle ha molto attenuato l’immagine estremistica e al limite isolazionista che il movimento aveva fin qui avuto. La tentazione del governo è forte, e con essa la propensione, o la disponibilità, a compromessi. E quel che vale per Di Maio, vale anche per gli altri.
di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud