“Via, fuggire via, per non tornare più…”, cantava con rabbia giovanile un gruppo irpino nato negli anni Ottanta dalle rovine del dopo-terremoto.
La rabbia esplosiva di quei giovani aveva interpretato in qualche modo la rabbia collettiva, ma anche la fatale rassegnazione, di tanti giovani di allora che, nonostante le illusorie promesse di futuro poi puntualmente disatteso, fuggirono alla ricerca di una “terra promessa dove coltivare nuovi pensieri” e nuovi sogni.
L’esodo biblico dell’emigrazione giovanile non ha conosciuto soste, tranne in alcuni periodi, fino ai giorni nostri, dove a partire, a fuggire, ieri come oggi, però, sono giovani con il biglietto di sola andata per Paesi tanto stranieri quanto sempre più lontani.
Nel frattempo l’Irpinia, come sembra ricordarci la cronaca di una realtà che ha assunto contorni drammatici, si è riscoperta tragica e povera, con un danno umano e sociale irreparabile che paga sulla propria pelle.
Non è stato favorito il fisiologico ricambio generazionale nella formazione di una nuova classe dirigente e parallelamente un settore strategico dell’economia locale, come l’agricoltura, messa in ginocchio da una crisi che ha origini più profonde e lontane per l’Irpinia, ha conosciuto il “tradimento” di una terra, prima conquistata dalle lotte epocali dei padri, poi abbandonata dai figli per una delirante corsa verso l’accecante mito della modernità che ha abbagliato tutti, anche quella stessa provincia contadina nella quale Pasolini aveva scorto l’ultima riserva di un residuo valoriale, non ancora intaccata dall’alterante omologazione culturale della società borghese.
La fuga in avanti di intere generazioni ha peraltro coinciso, se non completamente, almeno in parte, con la fine della speranza di rinnovamento che aveva ricevuto la spinta ideale degli anni Settanta fino a infrangersi davanti all’impossibilità di intravedere segni credibili di un futuro possibile.
Come l’abbandono della terra ha determinato in qualche misura la formazione di una nuova proprietà a vantaggio di opportunisti “imprenditori agricoli” che hanno colto l’occasione storica di riformare un nuovo inedito “latifondo”, la fuga di intere generazioni di giovani laureati, con più di qualche passaggio “a vuoto” nel cambio generazionale della classe dirigente politica, ha causato la cristallizzazione, la sclerotizzazione di vecchi apparati di potere contribuendo alla riproduzione di logiche funzionali alla conservazione di quel sistema di potere, con la nascita di nuovi vecchi feudi, così il cerchio sembra chiudersi. Un sistema di potere che governa, dal secolo scorso, una provincia oggi purtroppo chiamata a saldare, in un unico pesante conto sociale, le responsabilità di scelte politiche che hanno irrimediabilmente lacerato in profondità il tessuto sociale.
A più di qualcuno, dunque, è tornato utile che nel tempo l’Irpinia si sia svuotata, determinando quella “desertificazione umana” che ha reso paesi-fantasma molti comuni della provincia.
L’Irpinia oggi è in svendita e ci si dovrebbe interrogare se non ci sia stato, intanto, chi ci abbia guadagnato.
Il re ormai è nudo e la drammaticità del presente stride fortemente con il silenzio assordante, insopportabile, di una classe politica sorda, insensibile com’è al grido di rabbia, dei giovani di ieri, come dei giovani di oggi, che si leva insieme a quel lancinante grido di dolore che solo echeggia tristemente tra i rottami arrugginiti di un paesaggio desolante.
di Emilio De Lorenzo