di Alessandro Ebreo*
Patria: dal latino patria-ae, “la terra dei padri”, abitata da un popolo che sente di appartenere ad un territorio per nascita, lingua, cultura, tradizioni; in tal senso, è eloquente citare la definizione, al limite tra il politico e il filosofico, che Cicerone fornisce di patria, rifacendosi a sua volta a Pacuvio, il quale ripeteva spesso una frase che avrebbe avuto in seguito parecchia fortuna, in vari significati a seconda del contesto (e saranno infatti le varie accezioni, a volte anche controverse, della parola patria a essere oggetto del nostro breve esame): “patria est ubicumque est bene”, letteralmente, “la patria è ovunque si sta bene”; prima in Pacuvio, poi nelle Tusculanae Disputationes ciceroniane (dialogo di intento quasi raffinatamente lirico che è la summa di tutta la ricerca filosofica antica, in particolare di quella stoica) e, infine, in Seneca si affaccia una definizione ampia e particolare di quello che era un tema fondamentale a Roma.
I Romani erano degli orgogliosi “nazionalisti”: in particolare in età repubblicana, la vita del buon Civis Romanus passava necessariamente attraverso l’esercizio delle pubbliche funzioni amministrative e poi anche militari: per un popolo essenzialmente di guerrieri, dare la vita per la patria costituiva un modo per ricambiare il dono della vita che avevano ricevuto dai loro padri e dalle generazioni precedenti. Un orgoglio dunque forte, un senso di attaccamento tanto robusto da radicarsi velocemente e così divenire imprescindibile consuetudine.
Se i Romani nascono e si sviluppano alla luce della nozione di Patria (che trova attuazione prettamente giuridica nel concetto di Stato), per noi Italiani, che pure portiamo sangue latino nelle vene, la faccenda è ben diversa. Gli “Italiani” nascono molto prima che nasca la loro Patria. Si tratta di un insieme di genti diverse, benché accomunate da ragioni storiche, linguistiche e culturali, che tuttavia non sostanziano nel loro complesso l’idea di Patria, idea che si affaccia prepotentemente solo in epoca risorgimentale. Scrive il librettista Temistocle Solera nel “Va’ pensiero” dal Nabucco, con musiche di Verdi: “Oh, mia patria, sì bella perduta! Oh, membranza, sì cara e fatal”. La presa di coscienza è repentina, tutti si precipitano in teatro, cantano questi versi a squarciagola, sentono l’esigenza – che parte del cuore e attraversa petto e corde vocali facendosi parola – di urlare, di dire e far sapere, paragonandosi agli ebrei tenuti prigionieri a Babilonia dal re Nabucodonosor, pronti a combattere insieme, forse per la prima volta, per la Patria. Fatta poi l’Italia, bisognava fare gli italiani. Elemento di unione e coesione di un popolo e di attaccamento alla patria è da sempre quello che trova realizzazione piena in una naturale epica fondativa.
Quella romana è ben nota e parte da Troia; non è qualcosa che debba apparirci “antico”, in quanto ci troviamo di fronte all’analisi di uno schema sempre attuale e peculiare anche a situazioni più moderne: l’epica fondativa degli Stati Uniti d’ America o, ancora di più, della Francia, con la sua “ossessione” per il primato francofono. L’Italia fa eccezione, come fosse affetta da un vizio originario, per il poco valore attribuito alle vicende legate all’istituzione della patria, studiate frettolosamente a scuola, ridotte a narrazioni di poco conto. Ma, non potendo ovviamente parlare della fondazione di Roma limitandoci a ricordare la “storiella” dei gemelli Romolo e Remo e senza fare riferimento a eventi pregressi risalenti alla guerra di Troia, come possiamo ricordare la fondazione dell’ Italia, dal momento che l’unica cosa dell’azione di Garibaldi rimasta memorabile è il suo “Obbedisco!”, in replica al comando impostogli dal re Vittorio Emanuele II all’indomani dell’armistizio che prevedeva l’arresto dell’avanzata dei Garibaldini in Trentino? E non è un’esagerazione affermare che così poco è profonda la consapevolezza circa le origini della nostra Patria. Sono molte le persone che conoscono solo questa affermazione di garibaldina memoria, ma guai ad approfondire, sapere a chi il buon Giuseppe avesse sentito il dovere di obbedire e perché. Si chiederebbe veramente troppo. Perché dunque questa disaffezione, davvero tutta italiana, alle nostre vicende fondative (e dunque ovviamente al concetto di Patria a cui queste hanno condotto), che vengono considerate fatti di storia, badando poco al fatto che siano stati poi QUEI fatti di storia a farci essere ciò che siamo? Abbiamo una risposta a questa domanda, attuale benché di antica origine. La sopra citata presa di coscienza cui facevamo riferimento a proposito di Verdi non avvenne in blocco col risorgimento. Mi ritrovo a correggere quello che era stato uno “sbilanciamento poetico”: quei “tutti” che cantavano il Nabucco non erano proprio tutti, ma “tutti quelli che” credevano nell’ideale unitario: non tanti, in verità. Conseguita l’Unità, molti neppure si accorsero che qualcosa era cambiato.
Al Sud, in particolare, tutto era rimasto uguale, col permanere delle vecchie abitudini e consuetudini. Poi arriva la prima guerra mondiale e poi il Fascismo. In quel contesto avviene dunque la reale presa di coscienza di dover lottare per la Patria. Non avviene, come sarebbe stato giusto, in un momento edificante, di costruzione, ma nel contesto di distruzione che la guerra porta naturalmente con sé. È necessità di combattere a difesa o per il trionfo della patria, che trova la naturale risoluzione nella morte per essa. Ideale classico è vero ma, attenzione, è bene ricordare che in età classica questo era un onere affidato alle classi guerriere e che ora investe tutti senza distinzione. E va da sé, “non a tutti” fece piacere…. E dopo la prima guerra mondiale ecco il Fascismo, che si appropria del concetto di Patria finora legato al culto della morte e lo trasforma in un’ottica legata indissolubilmente all’ideologia e all’obbligo di aderire a essa. Chi non aderisce all’ideologia, o ancor peggio la contesta, è contro la Patria e il suo popolo, concezione in cui è possibile ravvisare la radice delle derive populiste che serpeggiano in numerosi paesi nel mondo.
La parola Patria si ammala, dunque, e si ammala perché viene conosciuta dagli italiani non solo troppo tardi, ma quando sono costretti dalla necessità o addirittura dalla violenza a farlo, in un’ottica che mette in rilievo sicuramente i lati negativi e poco quegli aspetti legati al bene, esemplari, che tanto connotarono lo spirito patriottico negli americani. Oggi dunque la signora Patria si è ammalata, e non sappiamo bene se e quando si riprenderà, riguadagnandosi l’affezione sincera e incondizionata del suo popolo. Ora è assente. Forse presente solo a sprazzi, nell’eco dei cori allo stadio al momento dell’inno nazionale o nella paura dello straniero, il cui arrivo in fuga dalla madrepatria viene percepito da qualcuno come una minaccia alla nazione. Cito a tal proposito un episodio recente in cui un docente chiede ai suoi alunni cosa avrebbero fatto se, in un’eventuale circostanza bellica, si fossero trovati nella situazione di una generale chiamata alle armi. Il docente, poi, forniva anche tre possibili risposte: A: con spirito di sacrifico parto e difendo la patria. B: provo ad aggrapparmi a qualche cavillo che mi possa consentire di non partire; C: prendo il primo volo per i Caraibi. Gli studenti, con sincera convinzione, si sono equamente distribuiti fra la risposta B e la C (i più verso quest’ultima).
Eppure un punto di partenza in direzione di un miglioramento poteva essere quello della stesura e approvazione della Costituzione. Atto primo di un processo che si lascia alle spalle tragici decenni. Effettivamente la parola Patria si può “guarire”, come suggerisce Pier Luigi Bersani, insegnando la Costituzione, cosa che porterebbe alla rivendicazione della Patria come luogo nel quale e concetto col quale il cittadino acquisisce sia diritti che valori tradizionali, nel pluralismo delle libertà democratiche.
Buon punto di partenza. Ma perché l’obbiettivo di curare sembra essere ancora così lontano? È forse complice l’esasperato cosmopolitismo -a cui oggi siamo forzatamente indotti- a rendere le cose così difficili? E quanto magari i recenti processi di immigrazione scaturiti dal globalismo saranno in grado di condurre alla nascita di una nuova classe di italiani, veri patrioti del futuro? A queste domande non si può, allo stato attuale (perennemente e repentinamente in divenire), dare una risposta che sia soddisfacente ed è dunque necessario, per ora, accontentarsi delle precedenti analisi sul passato, che pure possono esserci di aiuto nell’ interpretazione del presente e del futuro.
*Alessandro Ebreo è nato ad Avellino il 30 agosto del 2007. Frequenta il Liceo Classico “Rinaldo d’Aquino” di Montella e il corso di pianoforte al conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino, esibendosi, in varie occasioni, in ambito accademico. Nel 2023, esordisce come cantante nell’opera lirica “Il barbiere di Siviglia” con l’ Orchestra Filarmonica di Benevento.
In ambito letterario, un suo componimento poetico, dal titolo “Sacrificio”, è stato pubblicato, nel 2023, dalla casa editrice “Delta 3 edizioni”, nella raccolta “Parole di legalità”.
Nel 2024, è risultato secondo classificato al “Premio Ginestra” con un elaborato sul tema della violenza di genere, dal titolo “Il posto che mi spetta”.