“Una fiaba dietro la quale si nasconde una ricerca spirituale, una missione interiore che deve condurci innanzitutto a perdonare noi stessi, perchè la ferita che ciascuno di noi si porta dentro si rimargini. Sono convinto che metà della nostra infelicità derivi dall’eccesso di severità nei confronti di noi stessi”. E’ Edoardo Savarese, scrittore e docente di diritto all’Università Federico II di Napoli, a spiegare l’idea da cui nasce “Una piccola luce”, presentato questo pomeriggio all’Angolo delle storie. A confrontarsi con l’autore la scrittrice Emilia Cirillo e Francesco Ferrara, ideatore di Officina Libreria. “Il romanzo – prosegue Savarese – nasce dal trauma della pandemia, dalla necessità di rielaborare quelle tremende restrizioni della nostra vitalità che hanno caratterizzato la stagione del Covid, quando era vietato toccarsi e persino respirare. E’ un invito a riscoprire il valore dell’essere vivi attraverso il nostro corpo che ci dà accesso alla custodia della memoria, attraverso un viaggio simbolico. In un tempo in cui ciascuno sembrava aver rimosso l’idea della morte, l’esperienza del Covid ci sbatteva in faccia la malattia e la morte come esperienza collettiva, costringendoci, al tempo stesso, a rinunciare a riti come quello dell’addio ai defunti”. Ricorda come “Ho vissuto questa esperienza storica dolorosa, standomene nella mia casa in cui mi sentivo protetto ed insieme esposto, in compagnia della mia gattina Susanna che arrivava misteriosamente, ogni volta che mettevo la musica. Così ho cominciato a pensare alla storia di un bambino che riuscisse a portare la luce nell’oscurità, restituendola ad un’umanità fragilissima, anche grazie al violino che suona. La musica diventa nel romanzo una sorta di talismano”.
Ma è, innanzitutto, sottolinea l’autore, un libro sulla memoria “non sulla memoria di conoscenze quanto su quella esistenziale che ci impone di chiederci da dove veniamo. E’ questa quella che conta e che dobbiamo coltivare. La nostra mente è piena di cose ma ciò che va recuperato è l’essenziale. Poichè c’è un seme di bellezza in noi che non ha che fare con la conoscenza che possiamo esibire ma con la nostra identità, con chi siamo. Anche la musica ha sempre rappresentato per me uno strumento in grado di attivare la memoria, di richiamare luoghi e immagini ed è per questo che è così presente nel romanzo. Perchè i libri dovrebbero sempre aiutarci ad osservare la nostra vita in maniera più profonda e sconosciuta. La scrittura dovrebbe essere compagna di vita”. E sull’alternarsi della terza persona e della prima che contraddistingue le pagine del libro “Tendiamo a raccontare la nostra vita in terza persona ma ci sono momenti in cui sappiamo che dobbiamo gettare la narrazione in terza persona e tornare alla prima per rivelare chi siamo. In alcuni passi del libro, ho immaginato che io e la persona che amo fossimo morte, ormai dimenticate, ma le nostre voci riemergessero per ribadire che ci siamo stati ed è stato importante esserci”. Un itinerario, quello che compie il protagonista, che consentirà al “bambino che non è un bambino di comprendere la sua identità, la sua provenienza ed accogliere la sua esperienza di vita. Scoprirà il pianto, la compassione ed è attraverso la compassione che crescerà”.
E’ quindi Emilia Cirillo a sottolineare i molteplici richiami che caratterizzano il romanzo, dai film di Miazaki a ‘Non lasciarmi’ fino a “Senza famiglia”. “E’ un libro – spiega Cirillo – che segna l’inizio di una nuova possibilità di scrittura, attraverso quello che appare un vero viaggio dell’eroe, Bibbo, il bambino che deve portare la luce in un mondo al collasso e affronta con coraggio le diverse esperienze grazie alla sua Maestra, Pazienza, che aiuta a comprendere gli altri esseri viventi, soccorre nelle prove difficili, nelle privazioni, ‘quando al corpo e ai suoi sensi mancano anche le cose importanti, essenziali. Al suo fianco Susanna, una misteriosa gatta che sa suonare il violino. In lui la perdita della memoria diventerà un incentivo a inventare cose che scoprira’ poi di sapere già. Lo vediamo così attraversare cinque città, ciascuna delle quali ha perso uno dei sensi dell’uomo come in un tentativo di riappropriarsene per scoprire che è forse la memoria il sesto senso, quello da salvaguardare. Malgrado il dolore di non sapere da dove viene, Bibbo riuscirà a comprendere sè stesso e diventare adulto. Il libro è quindi anche un invito a seguire sempre la luce, a farci aiutare da ciò che amiamo, come la musica che incanta e che trasforma il ricordo di chi ci è stato vicino, poichè anche ciò che non ricordiamo resta in noi e prima o poi riemerge. Savarese ci consegna una fiaba per farci capire che cosa significa mettersi in cammino e accettarsi”. “Un metaromanzo – spiega ancora Francesco Ferrara – capace di farsi denuncia del tempo che oggi viviamo e insieme lanciare un messaggio di speranza”



