Piero Fassino sta faticosamente tessendo l’ordito di una coalizione di centrosinistra “più ampia possibile”, consapevole delle difficoltà che gli si parano dinnanzi, ma anche forte della tenacia che tutti gli riconoscono fin da quando, da dirigente del Pds riuscì, superando la diffidenza di Craxi, nell’impresa di traghettare nella famiglia socialista europea gli eredi del più grande partito comunista dell’Occidente. Quella fu veramente una svolta nella storia della sinistra italiana, al cui confronto il tentativo di riunire in un cartello elettorale pezzi di partito che fino a pochi mesi fa votavano insieme in Parlamento non dovrebbe apparire impossibile.
Eppure non è così: già alle prime battute il mediatore si è scontrato con lo sprezzante rifiuto di D’Alema, il sarcasmo di Bersani, la scelta isolazionista degli orfani di Vendola. Sull’altro piatto della bilancia c’è l’incoraggiamento di Romano Prodi (“avete finalmente imboccato la strada giusta”), che però non si può spingere oltre. Il Professore, in partenza per un lungo viaggio di studio e di lavoro fra Cina e Stati Uniti, scenderà eventualmente in campo al suo fianco solo quando il percorso sarà giunto al termine con risultati apprezzabili. Determinanti saranno dunque l’incontro con Pisapia e soprattutto l’assemblea di Mdp già convocata per l’inizio di dicembre; ma mentre nel primo caso si apre uno spiraglio positivo, dalle riunione dei bersaniani ci si può solo aspettare l’ennesima porta in faccia. E dunque, se tutto era cominciato con l’invito di Renzi a scrivere insieme “una pagina bianca” (programma e candidature), ci si può cominciare a chiedere chi accetterà di sedersi allo scrittoio: finora solo i radicali di Emma Bonino e i socialisti di Nencini; dall’altra parte i centristi di Casini e di Alfano. Obiettivamente, è ancora poco. Ma quali sono gli ostacoli che impediscono il raggiungimento dell’obiettivo più ambizioso? Se consideriamo la circostanza che la rottura è avvenuta al termine di una legislatura governata ininterrottamente, a Roma e nella maggioranza delle regioni italiane, dal centrosinistra, appare evidente che è proprio la sfida del governo il fattore scatenante della crisi. A sinistra del Pd, gli scissionisti di Articolo 21 e le altre frange sparse, da Fassina a D’Attorre a Civati, rimproverano a Matteo Renzi i troppi compromessi fatti per restare al potere, fino a snaturare – dicono – la fisionomia riformatrice del partito e a mascherare un’incestuosa volontà di accordo con Berlusconi. A nulla vale la considerazione che gli odierni irriducibili oppositori del segretario dem – tranne Massimo D’Alema che rinunciò alla candidatura – entrarono a suo tempo in Paramento con i voti di quegli stessi democratici che poi per due volte scelsero Renzi come guida del partito; né il fatto che le riforme oggi contestate furono disciplinatamente votate anche da coloro che ora ne chiedono l’abiura. Il problema, al fondo, è un altro: quel che appare indigeribile alla sinistra a sinistra del Pd è la prospettiva di altri cinque anni di gestione del potere, che vorrebbe dire sporcarsi ancora le mani con la fatica della mediazione, della trattativa ad oltranza per ottenere la realizzazione di un programma condiviso. Insomma, è come se di fronte alla rinnovata sfida del governo, resa ancor più ardua dalle conseguenze del voto proporzionale, si preferisse ancora una volta il comodo rifugio in una opposizione pura e irriducibile, in attesa di tempi migliori, e pazienza se non arriveranno mai. Che è poi la prospettiva che si annuncia con matematica certezza, al di là della tenacia e della buona volontà del plenipotenziario Fassino, se il centrosinistra andrà alle elezioni diviso in due o tre spezzoni. Auguri!
di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud