La radicalizzazione dello scontro politico non incentiva automaticamente la partecipazione al voto se non quando sono in gioco scelte di campo avvertite dai cittadini come decisive. Accadde nel 1948, le prime elezioni politiche repubblicane, quando la scelta fu sulla collocazione occidentale e filo americana dell’Italia: alle urne si recò il 92% degli italiani e per la prima volte le donne. Nel 1953 venne raggiunto il record di affluenza mai più superato: quasi il 94% furono gli elettori che si pronunciarono sulla cosiddetta “legge truffa”, il sistema elettorale che intendeva assegnare il 65% dei seggi al partito o alla coalizione che avrebbero superato il 50% dei voti. I primi segnali di disaffezione al voto cominciano a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con gli ultimi squilli nel 1992, in piena Tangentopoli e le stragi di mafia, 87,3%; e nel 1996, 82,2%, quando si fronteggiarono l’Ulivo di Prodi e Silvio Berlusconi, vincente due anni prima al suo esordio in politica.
Da allora in avanti è stata una discesa costante e inarrestabile con punte di astensionismo superiori al 25% degli aventi diritto nel quale è compresa la quota di dieci italiani su cento che dal 2006 hanno stabilmente smesso di votare. I dati incrociano il polso del Paese sentito dall’Istat: un terzo degli italiani non ha alcuna fiducia nei partiti politici e nel Parlamento: in una scala da 1 a 10, bocciano i partiti con un voto medio di 2,5 e il Parlamento con un umiliante 3,5. La disaffezione si è tradotta nelle ultime tre tornate elettorali in una forte diminuzione dell’affluenza. Va molto peggio nelle elezioni amministrative e regionali, pure essendo istituzioni più prossime e riconoscibili: in molte città, Avellino compresa, nei ballottaggi per l’elezione del sindaco, uno su due resta a casa.
Alla luce degli sviluppi più ultimi della crisi politica italiana, è lecito chiedersi se le ragioni che hanno determinato lo scenario di nuove ravvicinate elezioni costituiranno un incentivo per la partecipazione al voto che il 4 marzo scorso si è fermata al 74%. Ci sono una serie di elementi che concordano in questa direzione e che per la loro radicalità sono destinati ad irrompere con fragore nella prossima campagna elettorale. Tutto ruoterà su tre parole che si incrociano e si sovrappongono: Costituzione; Poteri; Europa. La decisione del presidente Mattarella di avvalersi delle sue prerogative sulla nomina dei ministri, senza entrare nei meandri interpretativi della Carta ma certamente escludendo attentati del Colle nei suoi confronti, pone piuttosto un problema politico pienamente avvertito dal cittadino: si può impedire la nascita di un governo in presenza di una chiara maggioranza parlamentare, frutto di 17 milioni di voti?
La difesa dei risparmiatori e la chiara collocazione europea di un Paese fondatore come l’Italia, non diradano le perplessità anche perché le fondate e drammatiche osservazioni del Capo dello Stato, si rivolgono ad un Paese che per una sua parte non residuale e crescente da questo orecchio non sente: considera l’Europa una sentina di poteri forti, l’euro una iattura che impoverisce, la Germania il principale nemico della sovranità degli italiani in uno con i complotti dei mercati e della finanza internazionali. Un armamentario al fondo propagandistico e irreale che però verrà utilizzato, come già avviene, per armare metaforicamente le piazze contro tutto ciò che è “costituito”. Resta il rammarico per quello che può essere considerato un errore politico forse fatale di Mattarella: più che su un ministro, come pure aveva detto commemorando Luigi Einaudi, avrebbe forse potuto impugnare il “contratto” giallo-verde sulle fantasiose e aleatorie coperture finanziarie relative ai capisaldi del governo guidato da Giuseppe Conte: flat tax, abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza. Gli italiani avrebbero capito meglio da chi guardarsi e di chi fidarsi.
di Norberto Vitale edito dal Quotidiano del Sud