“Oggi più che mai c’è bisogno di rieducare lo sguardo. All’inquinamento atmosferico si affianca quello causato da un eccesso di immagini, ecco perchè diventa sempre più difficile andare alla ricerca dell’autenticità, di un’immagine che sia vera”. Spiega così il regista spagnolo Victor Erice, vincitore del premio alla carriera al Laceno d’oro, la sua idea di cinema nel corso della masterclass all’Eliseo, intervistato da Sergio Sozzo e Aldo Spiniello “E’ quello che facevano registi come Kiarostami con pellicole legate al quotidiano ma capaci di educare pensiero e sensibilità. Una rieducazione allo sguardo che passa per una riflessione sul concetto di educazione alla cittadinanza. Bisogna imparare a guardarsi dentro, il primo atto può essere quello di chiudere gli occhi”. “Cerrar los ojos” , proprio come suggerisce il titolo del film di Erice proiettato al termine della masterclass. Ricorda come “la paura sia alla base delle prime proiezioni cinematografiche dei Lumiere con il treno che sembra investire lo spettatore. Ma e’ un ingrediente fondamentale anche del mio cinema”. Sottolinea come “Diventa fondamentale per il regista cercare di catturare la vita, quel qualcosa che non c’è nella sceneggiatura, come un pescatore che aspetta che il pesce abbocchi, come il pittore che vuole rappresentare l’albero nel momento epifanico ma deve fare i conti con una natura mutevole che rende impossibile il suo intento. Ma ciò che conta non è il risultato ma che lui accompagni l’albero nel suo processo di crescita”. Ribadisce come “Il cinema rappresenta una forma di conoscenza del mondo, di sé e del prossimo. Tuttavia, il mio rapporto con il grande schermo è sempre stato esistenziale, non una semplice professione”. Ricorda come “in passato le opere d’arte cinematografiche erano anche pipolari, film come quelli di Chaplin univano critica e pubblica. Oggi si è creata una frattura tra un cinema di intrattenimento e un cinema che è forma di resistenza. Poichè siamo in un regime di occupazione”. Ammette di invidiare i “cineasti dei paesi periferici che non sono schiacciati dal peso della tradizione, hanno una purezza nello sguardo”. Ricorda come Netflix e le altre piattaforme “impongono ai registi persino come girare le scene, in questo modo il loro lavoro finisce per diventare quello di un funzionario”. Mette in guardia dal confondere l’audiovisivo “di cui oggi si parla tanto” con il cinema “che è altra cosa. Il potere di controllare le immagini è così forte che a volte, per cambiare il mondo, basterebbe cambiare l’immagine del mondo”. E spiega ” Non conta ciò che dicono i registi ma le immagini che il pubblico vede incarnate sullo schermo, che non hanno bisogno di intermediazione, conta il rapporto tra pubblico e immaginazione. Gli stessi spettatori sono cineasti potenziali”. E ammette di essere rimasto incantato da Ladri di biciclette e dal cinema neorealista “che raccontava un cinema così vicino alla realtà del mio quotidiano, così diverso dal cinema americano”. Anche se non nasconde l’amarezza per la difficoltà di distribuire le proprie pellicole in Italia. A premiarlo con la scultura raffigurante la Mefite realizzata da Gennaro Vallifuoco il presidente del Circolo Immaginazione Antonio Spagnuolo che ricorda come “lo stesso Zavattini avesse partecipato al festival Laceno d’oro. OIggi è come se anche lui fosse qui a premiarla”.




