A meno di tre mesi dalla sua prima manifestazione in Cina e quattro settimane dopo la comparsa in Europa con epicentro in Italia, l’allarme sulle possibili ripercussioni geopolitiche della diffusione del “Covid-19” è stato lanciato dal capo economista di Moody’s Analtytics, una società collegata alla più nota agenzia di rating internazionale, che analizza i fattori di rischio dell’economia mondiale. “Se il coronavirus diventerà una pandemia, ha dichiarato alla ‘Stampa’ Mark Zandi”, provocherà una recessione globale”, e l’Italia “sarà uno dei paesi più colpiti perché ha pochissimo spazio di manovra in termini di politica monetaria e fiscale per reagire”. Se l’infausta previsione sarà confermata, l’anno 2020 appena cominciato potrebbe essere ricordato come quello del ripiegamento della globalizzazione e del ritorno alle politiche economiche sovraniste se non nazionaliste. Al momento non ci sono elementi concreti per alimentare un catastrofico pessimismo; e tuttavia il fatto stesso che si ipotizzi un periodo di almeno tre-quattro mesi (fino a primavera avanzata, ha detto la virologa Ilaria Capua) per l’uscita dall’emergenza di questi giorni, non fa ben sperare, perché in questi casi l’incertezza sul futuro non gioca a favore di decisioni coraggiose. Nella peggiore delle ipotesi, il “fattore virus” si somma ad altri elementi negativi già da tempo presenti sullo scenario internazionale, che concorrono a ridefinire in termini di interesse nazionale i rapporti economici e politici che gradualmente negli ultimi decenni si erano sviluppati in modo quasi consensuale dando vita ad un mondo sempre più interconnesso. Questa architettura di cooperazione aveva avuto una forte spinta dopo la fine della Guerra fredda sviluppandosi progressivamente in quarant’anni, ma è stata recentemente messa in crisi sia in Europa che negli Stati Uniti: nel Vecchio continente a partire dal referendum sulla Brexit (giugno 2016), negli Usa con l’elezione di Trump alla Casa Bianca (novembre dello stesso anno) e con la politica di forte accentramento degli interessi nazionali da lui inaugurata e promossa in vista della possibile rielezione fra nove mesi. Il confronto di queste settimane sul bilancio pluriennale dell’Unione europea, lungi dal registrare una convergenza dei paesi membri su politiche di integrazione (e quindi di spesa) tese a ridurre in divario esistente fra paesi più ricchi (il nucleo dei fondatori della Ue) e i nuovi arrivati, ha segnato, almeno finora, la prevalenza di criteri di rigore e di lesina, che indeboliscono la coesione europea. Anche le prime reazioni alla minaccia che il virus cinese lancia ai 27 soci dell’Unione sono state un po’ in ordine sparso; e la solidarietà verso l’Italia è stata confinata nelle buone intenzioni. Il fatto stesso che al vertice bilaterale Italo-francese di Napoli il capo dell’Eliseo abbia detto che occorre una risposta europea alla crisi dimostra che finora tale risposta non c’è. Se tredici Stati di tre continenti chiudono le frontiere ai turisti e agli uomini d’affari italiani; se minaccia di imballarsi il motore cinese della globalizzazione che fino a ieri contribuiva per il 33% alla crescita globale grazie a tassi di sviluppo annuali del 5-6%, qualche interrogativo sul futuro è d’obbligo. Del resto, è la storia a ricordarci che le pestilenze che nei secoli scorsi hanno investito l’Europa provocando milioni di morti sono arrivate sulle nostre coste lungo la via della seta. Ora non siamo certamente a quel punto; ma interrogarsi sulle condizioni in cui si troveranno le nostre economie quando usciranno dall’emergenza non significa fare allarmismo ma buona politica; in particolare in Italia, paese che vede a rischio due pilastri del sistema produttivo: i rifornimenti dall’estero e le esportazioni; canali essenziali che rischiano di inaridirsi in presenza di un mercato interno che resta asfittico.
Sarebbe estremamente pericoloso cedere alla tentazione, che pure si avverte, di combattere un virus globale con iniezioni di sovranismo; ma detto ciò, e per limitarci alle nostre latitudini, occorre intervenire per elevare decisamente la qualità di una risposta politica finora scadente, mentre le polemiche tra Stato e Regioni mettono a nudo un problema istituzionale non risolto dai tempi della modifica del Titolo V della Costituzione.
di Guido Bossa