L’antropologia del sacro e del popolare si intreccia in modo straordinario nella festa della Candelora e nella Juta a Montevergine, un pellegrinaggio che unisce storia, mito, spiritualità e identità collettive. La Madonna di Montevergine, conosciuta come Mamma Schiavona, è il cuore pulsante di questa celebrazione: una figura sincretica che custodisce l’eredità delle antiche divinità pagane e si fa simbolo di accoglienza per gli emarginati.
La Madonna nera e il mistero della sacralità oscura
La figura della Madonna di Montevergine si inserisce in un ampio panorama di iconografie sacre in cui il colore nero non è un dettaglio marginale, bensì il tratto distintivo di una specifica dimensione mistica. Le Madonne nere, presenti in diversi contesti cristiani, affondano le loro radici in archetipi arcaici legati alla Terra Madre e ai culti della fertilità. Questa oscurità non è solo cromatica, ma simbolica: rimanda al mistero, alla profondità dell’ignoto, all’energia primordiale della crcreazione.
In questo senso Mamma Schiavona si ricollega a figure come la Vergine Hodigitria di Costantinopoli e alle divinità femminili dell’Asia Minore, come Cibele, la Magna Mater. L’ubicazione stessa del santuario sul Monte Partenio suggerisce un legame con i culti di altura, luoghi da sempre consacrati alla spiritualità e alla trasformazione interiore.
L’ascesa al monte: tra devozione e rito di papassaggio
La Juta a Montevergine non è un semplice pellegrinaggio, ma una vera e propria ascesa mistica. L’atto di salire verso il santuario è una metafora di elevazione spirituale, una prova fisica e simbolica che replica l’originario viaggio della Madonna verso la sua dimora sacra. I fedeli percorrono sentieri codificati, sostano in luoghi specifici e scandiscono il cammino con canti sul tamburo, in una commistione di fede, musica e tradizione popolare.
Questo viaggio collettivo ha una forte dimensione comunitaria: il pellegrinaggio è un rito di passaggio, un momento di fusione tra il sacro e il profano, tra il passato e il presente, tra l’identità individuale e quella collettiva. Il canto, la danza e la ritualità della salita richiamano, per certi versi, le antiche processioni dionisiache, in cui il ritmo e il movimento favorivano un’estasi capace di avvicinare l’umano al divino.
Montevergine: un crocevia di culti e identità
L’importanza del santuario di Montevergine non si esaurisce nel contesto cristiano, ma affonda le sue radici in un passato ben più antico. Lì dove oggi sorge il tempio mariano, un tempo si venerava Cibele, la grande madre della fecondità e della natura selvaggia. Il suo culto, diffuso in tutto il Mediterraneo, era caratterizzato dalla presenza dei Coribanti, sacerdoti eunuchi che, attraverso rituali estatici e l’uso del tamburo, celebravano la dea e la potenza vitale del cosmo.
Questa continuità tra passato pagano e presente cristiano è un elemento ricorrente nella storia delle religioni: molte feste popolari, infatti, mantengono al loro interno tracce di culti precristiani rielaborati sotto nuove forme. La presenza della comunità LGBT nel pellegrinaggio moderno a Montevergine trova quindi un’eco nei rituali antichi: i Coribanti, con la loro ambiguità di genere e il loro rapporto con la divinità femminile, rappresentano una sorta di antenati simbolici di questa nuova forma di partecipazione spirituale.
Il pellegrinaggio come atto di resistenza e rinascita
Se nel passato il pellegrinaggio a Montevergine era una manifestazione di fede popolare, oggi esso assume anche un significato di affermazione identitaria e resistenza sociale. La partecipazione della comunità LGBT non è solo un omaggio alla leggenda medievale della Madonna che salva due giovani amanti, ma diventa un atto politico: un modo per rivendicare spazi, diritti e dignità attraverso un gesto profondamente radicato nella tradizione.
In questa ottica il pellegrinaggio si trasforma in una sorta di rito di liberazione, in cui la fede si intreccia con la lotta per il riconoscimento. La Madonna di Montevergine, con il suo messaggio di accoglienza e misericordia, diventa simbolo di un’umanità inclusiva, capace di trascendere dogmi e pregiudizi.
Tra sacro e profano: Montevergine come spazio di metamorfosi
La Candelora e la Juta non sono solo eventi religiosi: sono spazi di metamorfosi, momenti in cui i confini tra il sacro e il profano, tra passato e presente, si dissolvono. Montevergine diventa un luogo dove le identità si rinegoziano, dove le storie si intrecciano, dove la memoria collettiva si rinnova.
Gli Irpini, popolo di lupi e di montagna, si uniscono a questa celebrazione con una propria narrazione, che affonda le radici nell’epoca sannitica. Il lupo, animale totemico, simbolo di forza e di indipendenza, è parte integrante della festa, così come i canti popolari e le espressioni dialettali che scandiscono il passaggio delle stagioni.
La saggezza popolare, attraverso proverbi e detti, racconta il tempo ciclico, l’alternarsi della luce e dell’ombra, il passaggio dall’inverno alla primavera. Il pellegrinaggio, in questo contesto, diventa anche un rito stagionale, un modo per celebrare il ritorno della luce, in perfetta sintonia con il significato originario della Candelora.
La Juta come specchio dell’anima collettiva
L’antropologia della Juta a Montevergine dimostra come le tradizioni popolari siano spazi vivi, capaci di adattarsi ai cambiamenti sociali senza perdere il loro nucleo simbolico. Se un tempo il pellegrinaggio era solo un atto di devozione, oggi esso si arricchisce di nuovi significati, diventando un terreno di dialogo tra passato e futuro, tra sacro e lotta sociale, tra religione e identità.
Montevergine, con la sua Madonna nera, con i suoi canti antichi e con la sua capacità di accogliere chiunque si senta parte del suo abbraccio, rimane un luogo dell’anima, dove il viaggio fisico si trasforma in un cammino interiore e dove il mistero del divino si fa carne nelle storie di chi ancora oggi sale quel monte, portando con sé speranze, sogni e battiti di tamburo.