Come spesso accade in questa campagna elettorale piena di accuse e slogan di propaganda le poche parole di saggezza arrivano dal Quirinale. Mattarella senza fare un esplicito riferimento al raid razzista di Macerata ha detto che l’Italia ha bisogno di sentirsi comunità, senza diffidenza. La mancanza porta ad intolleranza e a volte alla violenza. Questo richiamo ad una sorte comune in cui ognuno deve vivere insieme agli altri è la risposta migliore a chi cerca lo scontro politico anche su un episodio increscioso, da condannare senza riserve perché nel nostro paese non si può assistere a scene da far west e ad una violenza causata da razzismo e xenofobia.
In campagna elettorale tutto è lecito ma equilibrio e senso di responsabilità dovrebbero prevalere. Alcuni partiti invece inseguono gli istinti peggiori che pure ci sono. Il legale di Traini (l’uomo che ha sparato a Macerata contro i nigeriani) pur giudicando l’azione del suo assistito scellerata ha detto: c’è tanta gente che mi ferma e mi manda messaggi di solidarietà per Traini, tutto ciò è allarmante e ci dà la misura di quello che sta accadendo. Ingigantire i fenomeni – come ha scritto Ezio Mauro – a dispetto dei numeri, associare immigrazione a devianza, rinnegando l’integrazione e il multiculturalismo in nome di una politica della forza capace di fare da sé, con ruspe, affondamenti, muri, respingimenti, fili spinati. Finchè qualcuno prende una pistola e comincia a sparare, facendo una caccia al nero, trasformato in bersaglio.
Questo è il prodotto della coltivazione dell’odio, di un’escalation che mischia impotenza e onnipotenza. Dunque bene ha fatto Mattarella ad avvertirci che solo con un senso di solidarietà si torna in un alveo di civiltà abbandonando regressioni perché la cultura democratica non può finire in minoranza. Il Presidente della Repubblica da sempre ha messo al centro della sua azione politica i “talenti” da spendere, i valori da rimettere in gioco. Democristiano e figlio di un parlamentare che la DC ha contribuito a fondarla, il Capo dello Stato si è formato all’interno del mondo cattolico, nella Chiesa del Concilio che si apre all’innovazione e a nuove speranze. Il Capo dello Stato sa perfettamente quanto è fragile oggi il nostro paese ma sa anche che per rivitalizzarlo serve un senso di convivenza che oggi appare smarrito. I suoi appelli non sono formali ma di sostanza e del resto in tanti oggi di fronte a partiti che arrancano cercano vecchi modelli, vorrebbero una scuola di politica che oggi non c’è.
Qualche giorno fa sulla “Stampa” un analista attento come Marcello Sorgi ha scritto un editoriale sul fascino immortale della DC. La sua riflessione è partita dall’eco avuta dai novant’anni di Ciriaco De Mita. Un compleanno accompagnato da interviste e ricordi in cui l’ex Presidente del Consiglio ha potuto tranquillamente rievocare i suoi anni da segretario della Democrazia Cristiana. Oggi in tanti parlano della DC ma in pochi la conoscono davvero. Nell’era della politica tutta giocata sulla velocità, sulla comunicazione ad effetto i tempi lunghi democristiani appaiono preistorici.
Eppure qualche lezione andrebbe presa. Ad esempio De Mita e nessuno dei vecchi leader diccì – ha scritto Sorgi – avrebbero sottoposto a referendum la riforma istituzionale. I referendum così come le commissioni di inchiesta nella grammatica democristiana erano al massimo da evitare finchè possibile, e al limite da concedere come sfogatoio alle opposizioni in cambio della loro tradizionale collaborazione parlamentare. Questo senso delle istituzioni e questo senso della politica come regolatrice di conflitti si è ormai completamente perso. La vicenda degli immigrati è emblematica. Si parla alla “pancia” delle persone, si inseguono i sondaggi quando invece dovrebbe essere la politica a guidare e non a farsi guidare.