E’ una riflessione a tutto campo sul valore della memoria, sulle responsabilità del paese nell’applicazione delle leggi antiebraiche, sull’importanza di prevenire nuove forme di intolleranza quella che consegna il professore Michele Sarfatti, tra i massimi studiosi della Shoah, già direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, ospite dell’Ic Aurigemma di Monteforte. Spiega come l’antisemitismo “E’ un sentimento che esiste da centinaia di anni, si manifesta in forme sempre diverse ed è oggi ancora vivo. All’antisemitismo si affiancano nuove forme di discriminazioni, dall’islamofobia all’intolleranza verso tutte le minoranze. La vita dovrebbe celebrare la diversità ma è costellata di odio, rifiuti e, talvolta, aggressioni”. Ricorda come “In Italia una donna come Liliana Segre è costretta a vivere sotto scorta e riceve ogni giorno minacce di morte. Ha un’unica colpa, quella di essere sopravvissuta ai campi di sterminio. E’ inaccettabile”. Unica strada per combattere le discriminazioni è “la predisposizione verso gli altri, il piacere di scoprire la bellezza della diversità, la conoscenza del passato che non serve a impedire che il passato si ripresenti, ma a capire gli errori che hanno commesso i nostri genitori e a non ripeterli”. Spiega come assume un valore diverso “Parlare di leggi razziste o antiebraiche, piuttosto che di leggi razziali, poiché il suffisso ‘ismo’ richiama con chiarezza un’ideologia. Ci troviamo di fronte a uomini e donne che hanno costruito una diversità che nella realtà non esiste. Al tempo stesso, chiamandole leggi antiebraiche, si ribadisce con forza che erano contro gli ebrei, pur tenendo conto che esistevano anche norme razziste dirette contro la popolazione nera delle colonie, quasi sempre, però, emanate dai governatori locali in Libia ed Eritrea. Se guardiamo, invece, alle leggi dello Stato che compaiono sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, sono chiaramente antiebraiche”.
Contrappone il termine Shoah che fa riferimento a “qualcosa di improvviso alla ‘Soluzione finale’, vocabolo scelto dai tedeschi per indicare un iter burocratico, “consistente dapprima nell’espulsione e poi nell’annientamento dei ebrei”. Insiste sull’unicità del fenomeno che “ha riguardato tutto il continente europeo, con poche eccezioni, dilagando come accade con le epidemie. Al tempo stesso, ha avuto una specificità legata ad uccisioni che non avvenivano sul posto. Si realizzavano attraverso deportazioni di prigionieri poi destinati a morire, con i trasporti messi al servizio di persone considerate di nessun valore”. Spiega come “Molti, in Italia, hanno preferito far finta che le leggi antiebraiche non ci siano mai state. Furono soprattutto i giovani dell’epoca ad accoglierle con entusiasmo, i Gruppi Universitari fascisti, videro nell’antisemitismo una rivoluzione che poteva dare nuova linfa al fascismo, a partire dalla convinzione di avere il nemico in casa”. Ribadisce come “Lo Stato Italiano applicò le leggi antiebraiche senza essere preparato a gestire questa fase, poiché è complicato anche essere razzisti nel rispetto della logica, bisogna fare i conti con le tante differenze all’interno delle comunità”.
Raccomanda di non monumentalizzare la Shoah “Non deve essere un rito a cui gli studenti devono partecipare altrimenti la vedranno solo come un’imposizione. La memoria deve essere un punto di arriva e non un punto di partenza, un traguardo a cui giungeranno solo se acquistano un grado di consapevolezza con la mente e con il cuore, dopo avere studiato. Ecco perché il percorso deve sempre essere calibrato sul livello di preparazione degli alunni”. Ricorda come la Shoah non possa essere separata dalla storia e dagli eventi che la resero possibile “Basti pensare alla cattolicizzazione del paese, alla nazionalistizzazione della società, ai postumi della Grande Guerra che aveva travolto l’economia, con il ritorno dei soldati che avevano combattuto in guerra e chiedevano più potere. Sono tutti fenomeni che sono importanti per comprendere il dilagare dell’antisemitismo. Si finisce con il cercare sicurezza individuando un capro espiatorio”. E rilancia “Non ha senso parlare solo delle persecuzioni nei confronti degli ebrei perché fa pensare a una predisposizione di questo popolo ad essere vittima”.
Ricorda come “l’Olocausto fu un esperimento, non c’era niente di prevedibile e scritto”. Né si può parlare di male assoluto “perché così facendo si finisce con l’escluderlo dalla storia, senza capire le cause che l’hanno generato”. Ricorda le due fasi che caratterizzarono l’antisemitismo in Italia, “dall’eliminazione degli ebrei dal paese, escludendoli da scuole e pubbliche amministrazioni, attraverso la separazione e la ghettizzazione, all’eliminazione degli ebrei del paese”. Spiega come “l’applicazione delle leggi razziste in Italia non fu un processo semplice, non c’era stata un formazione antisemita, già all’interno del periodo risorgimentale gli ebrei avevano conosciuto l’equità nel trattamento giuridico. Era difficile espellere una comunità che si era integrata”. Ricorda come la prima legislazione italiana antiebraica sia stata più dura che in altri paesi “Dove non c’è stato, ad esempio, il Manifesto della Razza” e l’Italia abbia fatto fatica ad assumersi le sue responsabilità “C’era un tasso di volontà antisemita nel governo più forte che nella popolazione. Né è stato semplice, poi, liberarsi dal fascismo e cancellare l’antisemitismo creato dal regime”.
Si sofferma sulle dinamiche attraverso le quali l’antisemitismo entrò nella vita del paese “tutta la società fu coinvolta progressivamente nell’applicazione delle leggi razziali, per iscrivere i propri figli a scuola bisognava dichiarare di non avere antenati ebrei, non è possibile affermare che le comunità non sapessero ciò che stava succedendo. Né ci furono proteste pubbliche, fatta eccezione per una processione di San Gennaro, tenutasi a Napoli nel ‘38, al termine della quale furono rinvenuti bigliettini che facevano propaganda antifascista “Eppure – ricorda Sarfatti – se cerchiamo bene, troveremo anche forme di protesta come quella di Benedetto Croce che scelse di far sentire la sua voce di dissenso”. Mette in discussione il ruolo del commissario montellese Giovanni Palatucci “Non ci sono documenti che lo ricolleghino al salvataggio di ebrei. Né può averli aiutati perché tra i suoi compiti non c’era quello di arrestarli. Sarebbe piuttosto collegato a un movimento fiumano antitedesco”.
A ribadire l’importanza di educare le nuove generazioni, ricollegando alle sfide del presente la lezione che arriva dalla memoria la dirigente scolastica Colella: “Un insegnamento che non può non partire dal racconto dei testimoni”. A partecipare all’incontro anche Sandra Terracina, referente del Progetto Memoria, che ha ricordato l’impegno nell’accompagnare i sopravvissuti ai lager nel racconto della loro storia.