di Mino Mastromarino
Il Carnevale è la Festa Popolare per eccellenza, è la festa dell’inversione. Come festa, è un intervallo del tempo ordinario. E il rito simbolico dell’antiquotidiano. Secondo il canone grottesco, i ricchi diventano poveri, i poveri si trasformano in ricchi. Invero, il Carnevale si è sempre ritenuto, oltre che un periodo di festa, anche il dispositivo simbolico di palingenesi, per cui, dopo la temporanea sostituzione dell’ordine costituito con il caos, cioè una volta terminato l’intervallo ludico, l’ordine sociale si ristabilisce rinnovato e assicurato fino all’arrivo del carnevale successivo. La fase conclusiva dei giorni carnevaleschi si risolve nel parodico funerale e soprattutto nella lettura
del testamento, esercizio di satira irriverente, di intelligente scurrilità, e di uso corrosivo del dialetto.
A Montemarano, va di scienza Dioniso, il dio che viene. Irrompono il mistero e la fascinazione della maschera. Cioè, di quella straordinaria invenzione umana che ci consente di liberarci dalla nostra identità personale, cioè dal nostro volto, per assumerne un’altra: potendola arbitrariamente derivare dal mondo animale, dal mondo fantastico, dalla natura. I Montemaranesi hanno conservato i tratti ancestrali del Carnevale, alimentati e presidiati
dall’autoctona e inimitabile Tarantella. Coerentemente con il Mondo alla Rovescia, hanno trasformato la figura giullaresca per antonomasia, il Pulcinella, nella maschera del Caporabballo, sovvertendo il costume emblema della
napoletanità pensosa a mezzo degli impertinenti segni distintivi del potere quali il mantello e il bastone.
Il Carnevale di Montemarano è rituale, giacchè si svolge sempre allo stesso idiosincratico modo. Parte dal basso, è eversivo e antistituzionale. Simboleggia il ribaltamento dell’autorità. E’, forse, l’ultimo carnevale di partecipazione. Non chiede esibizione, non mira all’ allegoria. Non è un evento. Men che mai una sagra. Non c’entra nulla con il turismo. E’ autarchico perché non ammette alcuna importazione esterna di idee, immagini, suoni; e perché i Montemaranesi, pur essendo tra le comunità più aperte dell’entroterra irpino, se lo fanno tutto per loro e tra di loro, senza rinunciare alla loro proverbiale ospitalità.
A Montemarano non si giunge per assistere alla sfilata di carri allegorici o di balletti organizzati. Il carattere trasgressivo è affidato al camuffamento e all’elegante movimento delle ‘mascarate’. Il Carnevale Montemaranese è la sintesi del delirio dionisiaco tipico dei Saturnali con la rivalsa popolare, impostasi in epoca medievale. Anzi è un carnevale sinestetico, capace cioè di suscitare esperienze multisensoriali. La vista, infatti, è paradossalmente il senso meno ( e comunque non l’unico ad essere) provocato. Del resto, l’Aglianico – il gran cerimoniere di casa – non ama essere osservato, perche aborrisce la distanza. La sonorità e il ritmo pervasivo della Tarantella ipnotizza il Montemaranese e chiunque abbia la voglia e la fortuna di esserne ospite. Fissa e somministra il tempo della Festa, disegnando un flusso crescente di estasi profana dalle ore mattutine, dedicate alla meticolosa assunzione dei costumi, fino all’ebbrezza musicale della incipiente notte di baccanale. Le sfilate processionali partono ordinate
nella luce del primo pomeriggio invernale, affettando la rutilante creatività delle maschere. Al crepuscolo, tuttavia, si scompongono in sinistre traiettorie sinusoidali, di metamorfosi quasi dionisiaca; confluiscono nei vicoli del centro storico, invadendone gli spazi, altrimenti presidiati dalle Chiese e dalle Immagini sacre per tutto il resto dell’anno. E’ questo il momento più coinvolgente e ineffabile del Carnevale montemaranese, quando gli occhi
scorgono a malapena i pennacchi ( i tutuli ) dei Caporabballi e il clarino impennato dai satireschisuonatori, non essendo più possibile distinguere le maschere dai corpi attratti dalla sfrenata cadenza tarantellata .
E’ la fase della penombra, della soglia tra finzione e realtà, dell’ibridazione sensoriale, della invasione estatica.