Le prime battute della campagna elettorale, avviata in anticipo sullo scioglimento delle Camere, sono difficilmente decifrabili, anche perché non sembra che i principali interlocutori si siano adeguati alle regole non scritte del sistema proporzionale, che in Italia era stato abbandonato nel lontano 1993 quando entrò in vigore la legge che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. La legge Mattarella assegnava il 75% dei seggi parlamentari ai candidati eletti in collegi uninominali, dove vinceva chi prendeva più voti. Ora le proporzioni sono invertite, e il 61% dei seggi di Camera e Senato vengono attribuiti nelle circoscrizioni in base al numero di quozienti ottenuti dalle coalizioni. Il risultato sarà che ben difficilmente si avrà un vincitore assoluto. Dal 1993 abbiamo avuto in Italia ben sei elezioni generali: nel 1994, nel 1996, nel 2001, nel 2006, nel 2008, nel 2013. Già a prima vista, la sequenza cronologica mostra che di per sé il sistema maggioritario non ha sempre garantito la stabilità delle legislature: ci sono stati infatti ben due scioglimenti anticipati, oltre a diversi cambi di maggioranza nel corso delle legislature di maggior durata. Inoltre, i regolamenti parlamentari non hanno impedito, anzi hanno favorito i frequenti cambi di casacca degli eletti. Ma non è questo il problema che ora ci interessa. Più rilevante è il fatto che nella cosiddetta prima Repubblica, il sistema proporzionale prevedeva sempre e comunque la demarcazione fra un’area di governo ed una di opposizione, all’interno delle quali si formavano le alleanze, mutevoli ma comunque imperniate sulla Democrazia cristiana o sul Partito Comunista, l’una destinata a governare, l’altra a restare all’opposizione. Ci fu chi, in proposito, enunciò il cosiddetto “fattore K” (il Pci sempre all’opposizione quasi per una congiura internazionale): ma in realtà furono gli elettori a decidere ogni volta la collocazione degli schieramenti, e i partiti ne interpretarono la volontà. Ventitré anni dopo si torna al passato; ma quella che è cambiata è la cornice generale. Oggi i ruoli di maggioranza e di opposizione non solo predefiniti, e l’intercambiabilità diventa il criterio principe cui ispirarsi. Anche i Cinque Stelle, nella versione accreditata dal candidato premier Luigi Di Maio, sembrano pronti ad abbandonare lo splendido isolamento fin qui ostentato, al quale si deve fra l’altro la loro sconfitta alle regionali siciliane. Naturalmente si va per gradi: dopo le elezioni, dice Di Maio, se saremo il primo partito avvieremo consultazioni “con tutte le forze politiche” per mettere insieme un governo e chiedere la fiducia. Ma intanto c’è il precedente del voto sul testamento biologico, che è passato grazie ad un accordo Pd-M5S; e lo stesso Di Maio garantisce che in caso di vittoria non verranno aboliti gli 80 euro ai meno abbienti (fino a ieri erano considerati con disprezzo una mancia elettorale). Naturalmente, nei prossimi mesi le rispettive posizioni verranno meglio precisate, ma intanto il proporzionale “senza rete” che si sta delineando dà luogo a curiosi ammiccamenti fra i partiti: ora la Lega strizza l’occhio ai grillini, ora è Bersani, da sinistra, ad accreditarli come interlocutori affidabili; mentre Berlusconi lancia segnali al Pd renziano pur negando il ritorno al patto del Nazareno. Prima o poi i partiti nati col sistema maggioritario (Pd, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia) si dovranno rendere conto che, se non saranno pronti ad adeguarsi alle nuove regole del proporzionale, faranno del movimento di Grillo e Di Maio il fulcro di ogni soluzione di governo.
di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud