Il traguardo immediato della maggioranza è quello di arrivare senza troppi incidenti di percorso alle elezioni europee del prossimo 26 maggio. Non è un obiettivo facile. Le tensioni sono sempre più evidenti, la Tav è solo l’ultimo esempio. L’escamotage del rinvio grazie ad un cavillo giuridico ha evitato la crisi ma tra qualche mese il dilemma si riproporrà tale e quale e allora bisognerà uscire con un sì o con no all’opera. Il prendere tempo è stata il tratto più significativo per due forze politiche che si sono ritrovate quasi casualmente a guidare l’esecutivo. Il peccato originale sta nella loro eccessiva diversità. La Lega resta un partito legato a scelte chiare come la sicurezza e le infrastrutture che devono far progredire realtà ferme da troppi anni. I cinque stelle sono un movimento cresciuto troppo in fretta e che non è ancora maturo per governare una nazione complessa e articolata come la nostra. E così avendo un progetto preciso Salvini ha svolto un ruolo da premier pur stando al ministero dell’Interno. Di Maio e lo stesso Conte non sono riusciti ad arginarlo rifugiandosi nel contratto come alibi per non mostrare l’incapacità di fare sintesi politica. Ognuno dei contraenti ha gestito la sua parte di interesse. Quota cento per la Lega, reddito di cittadinanza per i Cinque Stelle. Visioni di parte e nessuna prospettiva generale. Dallo scorso quattro marzo ad oggi Salvini e Di Maio non sono più soli in campo. La partita politica si è allargata al PD e al suo nuovo segretario Zingaretti e dunque ora si gioca almeno in tre oltre all’eterno Berlusconi. Salvini resta comunque largamente il dominus dell’area di centrodestra e da questa postazione può cavalcare la sua crescente popolarità. I Cinque Stelle invece ora sono insidiati da un possibile ritorno della sinistra che potrebbe recuperare gli elettori che alle ultime politiche hanno scelto i grillini. Il puzzle dunque non è facilmente componibile anche perché Salvini e Di Maio hanno urlato per cinque anni contro governi non eletti dal popolo e si ritrovano a guidare un esecutivo che nessun elettore ha mai votato. Quello di Conte è infatti un governo di coalizione che si è formato in Parlamento esattamente come avveniva nella Prima Repubblica. Allora ci si metteva insieme sulla base di un programma comune ora sul cosidetto contratto. Il professor Maurizio Ferrera che insegna Scienza della Politica vede il contratto di governo come “una lista disparata di punti, senza un ordine di priorità. Gli impegni più ambiziosi (come lo stop all’immigrazione, la revisione della legge Fornero, il reddito di cittadinanza, la lotta alla corruzione, la democrazia diretta) riflettono le posizioni di bandiera dei due partner di coalizione, ma non sono inseriti in una cornice strategica che li renda compatibili, in base a un più generale progetto di sviluppo. I botti quotidiani sono perlopiù legati a eventi o scadenze contingenti. Così la politica italiana si avvita su se stessa, si rinchiude in una sorta di bolla che dà spettacolo ma resta sospesa a mezz’aria. Scollegata o quasi rispetto alle grandi dinamiche del mondo e dell’Europa, che ci riguardano da vicino ma ci passano sopra la testa”. Andare avanti così assomiglia molto di più al motto andreottiano del tirare a campare piuttosto che a quello del governo del cambiamento. Trasformare l’antipolitica in forza di governo poteva anche essere un progetto interessante ma Lega e Cinque Stelle dovevano parlare al Paese e non farlo sbandare pericolosamente. Manca un disegno comune. L’assenza di questa visione produce distanze e differenze. Di Maio e Salvini si comportano troppo spesso da avversari politici e non da partner dello stesso governo.
di Andrea Covotta